Prof.ssa Domenica Lorusso - Tumori ginecologici

Cancro dell’endometrio, dell’ovaio e della cervice uterina: dalla prof.ssa Domenica Lorusso una panoramica sulle prospettive di trattamento

Rispetto alla popolazione maschile, quella femminile da sempre rivela un’accresciuta sensibilità verso i programmi di controllo e prevenzione oncologica: lo dicono i dati dell’Osservatorio Nazionale Screening, confermando un incremento delle percentuali di adesione allo screening mammografico rispetto agli anni precedenti  (sebbene ancora non ai livelli precedenti alla pandemia di COVID-19). Ciononostante, l’insieme delle nuove diagnosi dei tumori all’ovaio, all’endometrio e alla cervice uterina lascia intendere che ci sia ancora molto da fare per sconfiggere queste neoplasie, classificate come rare e, purtroppo, interessate solo in parte dai benefici della ricerca scientifica.

Per comprendere meglio l’entità del problema ci siamo rivolti a Domenica Lorusso, Professore Ordinario di Ostetricia e Ginecologia all’Humanitas di Rozzano e Responsabile dell’Unità Operativa di Programmazione della Ricerca Clinica presso l’IRCCS Fondazione Policlinico Gemelli di Roma: la professoressa Lorusso fa parte del consiglio direttivo di W4O Italy, un’associazione di oncologhe italiane votata a realizzare una corretta informazione su queste rare e sottovalutate forme tumorali.

TUMORE ALL’OVAIO

Secondo i dati più aggiornati dell’Associazione Italiana Registri Tumori (AIRTUM), in Italia circa 5200 donne all’anno ricevono una diagnosi di tumore all’ovaio, ma il numero che preoccupa maggiormente è quello relativo alla mortalità, con oltre 3 mila decessi nell’arco dei 12 mesi e una sopravvivenza netta a 5 anni dalla diagnosi del 43%: meno della metà di coloro a cui vien fatta una diagnosi di tumore all’ovaio dopo cinque anni è ancora in vita. “Tra i sintomi questo tipo di tumore annovera gonfiore addominale, difficoltà digestive e dolori non specifici, molto spesso trattati come le più comuni patologie intestinali, fra cui coliti e diverticoliti”, spiega Lorusso. “Ciò implica che al momento della diagnosi circa l’80% dei tumori si trovi già in uno stadio avanzato di malattia, con un ovvio e drastico impatto sulle possibilità di cura e guarigione”. Capita, inoltre, che un tumore all’ovaio sia scoperto durante una visita di controllo ginecologico giacché manca un programma di screening per questa neoplasia.

“Il trattamento di un tumore all’ovaio prevede il ricorso all’intervento chirurgico mediante cui asportare il tumore primario e ottenere quelle che viene definito “residuo tumorale assente”, eliminando così tutta la malattia visibile”, prosegue Lorusso. “Ciò perché il rischio di recidiva nelle pazienti con tumore all’ovaio è concreto. Pertanto, a questa procedura deve fare seguito una chemioterapia adiuvante ottenuta dalla combinazione di carboplatino e paclitaxel, seguita a sua volta da una terapia di mantenimento basata sulla profilazione molecolare della neoplasia”.

La caratterizzazione molecolare è un’opportunità senza precedenti che, al giorno d’oggi, permette di ottenere una vera e propria ‘carta d’identità’ del tumore, analizzandone a fondo le caratteristiche non solo isto-patologiche ma anche molecolari, guardando nel dettaglio agli antigeni espressi dal tumore stesso. È un passaggio essenziale - specie per le forme tumorali più rare - perché permette di individuare farmaci efficaci e in grado di agire in mirata sulle cellule del tumore. “Oggi, con il regime di mantenimento offriamo alla paziente la miglior terapia possibile basata su un dettagliato profilo molecolare della malattia”, prosegue l’esperta. “Grazie alle analisi molecolari seppiamo che circa il 25-30% dei tumori ovarici esprime la mutazione nei geni BRCA (la stessa del tumore della mammella), mentre un altro 25-30% circa esprime mutazioni nel sistema di ricombinazione omologa, essenziale per riparare i danni del DNA. Infine, il rimanente 40-50% dei pazienti non ha apparentemente alcun problema a riparare i danni del DNA. A ognuno di questi gruppi di pazienti corrispondono terapie di mantenimento diverse”.

In certi sottogruppi di pazienti affette da tumori ginecologici caratterizzati da difetti di ricombinazione omologa è emerso il ruolo dei farmaci PARP-inibitori (PARP-i), da assumere, da soli o in combinazione con farmaci anti-angiogenetici (tra cui bevacizumab), come terapia di mantenimento. “Questi farmaci hanno dimostrato di prolungare la sopravvivenza nelle pazienti con tumore ovarico, ritardando il rischio di recidiva”, puntualizza Lorusso. “Grazie alla combinazione di PARP-i e bevacizumab si riesce a impedire la comparsa della recidiva in una significativa quota di pazienti e a ritardarla in un’altra quota. È un approccio che ha cambiato la gestione clinica della malattia”.

Che quello attuale sia un momento particolarmente felice nella ricerca contro il tumore all’ovaio lo dimostra anche l’ormai prossimo arrivo sul mercato di una nuova classe di molecole in cui un farmaco chemioterapico è legato a un anticorpo che riconosce uno specifico recettore sulla cellula tumorale. “Mirvetuximab è il primo anticorpo farmaco-coniugato che ha dimostrato di funzionare bene nelle donne affette da tumore ovarico resistente ai farmaci platino-derivati, allungandone la sopravvivenza rispetto al trattamento standard”, aggiunge Lorusso, completando la panoramica sul tumore all’ovaio. 

TUMORE DELL’ENDOMETRIO

A differenza del carcinoma all’ovaio, quello dell’endometrio nella stragrande maggioranza dei casi viene diagnosticato precocemente, quando ancora è localizzato all’interno dell’utero e non ha dato metastasi. Questo perché il sintomo più evidente della sua presenza è dato dalle perdite di sangue che, soprattutto nelle donne in post-menopausa, creano allarme, spingendole a rivolgersi al ginecologo. “Nonostante la buona prognosi - nell’80% dei casi l’intervento chirurgico porta alla guarigione - e una gestione piuttosto dispersa nei vari centri ospedalieri sul territorio nazionale, questo tumore è ancora uno dei più frequenti tra la popolazione femminile”, spiega Lorusso. “Inoltre, tra tutti è l’unico le cui incidenza e mortalità risultino in aumento. Ma grazie agli avanzamenti della tecnologia è stato possibile giungere a una classificazione del tumore dell’endometrio suddivisa in 4 categorie: fino al 10% dei tumori è legato alla mutazione del gene POLE e ha un’ottima prognosi. All’estremo opposto ci sono, invece, le forme legate a mutazione della proteina p53, che costituiscono fino al 25% dei tumori dell’endometrio e hanno un comportamento talmente aggressivo da essere causa di quasi il 75% delle morti provocate nel complesso da questo tumore. Infine, ci sono i tumori legati all’instabilità dei microsatelliti che rappresentano quasi un terzo di tutti i tumori dell’endometrio”. Quest’ultima classe di neoplasie presenta una buona risposta al trattamento con farmaci immunoterapici, da somministrare sia come agenti singoli che - nelle forme avanzate - in combinazione con la chemioterapia sistemica a base di carboplatino-paclitaxel.

“Nelle scorse settimane, il Comitato per i Medicinali per Uso Umano (CHMP) dell’EMA ha approvato la combinazione dell’anticorpo monoclonale anti-PD1 dostarlimab con la chemioterapia standard nelle pazienti affette da tumore dell’endometrio avanzato o metastatico ed elevata instabilità dei microsatelliti”, aggiunge Lorusso. “Tale combinazione riduce di oltre il 70% il rischio di progressione di malattia rispetto alla sola chemioterapia. È un risultato eccezionale perché legato anche a un aumento della sopravvivenza”.

Infine, esiste un’ultima classe di tumori dell’endometrio, con un profilo molecolare non ancora ben definito che oggi trova distinzione in due grossi gruppi: quelli che espongono i recettori per gli estrogeni, e di conseguenza possono essere curati con l’ormonoterapia, e quelli che non li presentano e hanno una prognosi infausta. “Nel corso dell’ultimo Congresso ESMO, tenutosi a Madrid, sono stati presentati i risultati di uno studio che ha combinato l’immunoterapia alla chemioterapia standard e ai farmaci PARP-i”, afferma Lorusso. “Tale combinazione funziona bene soprattutto nelle pazienti che non presentano instabilità dei microsatelliti”.

TUMORE DELLA CERVICE

Ultimo rappresentate della triade di neoplasie ginecologiche è il tumore della cervice uterina, che in Italia colpisce circa 2600 donne ogni anno. “Questo tumore è strettamente correlato all’infezione da Papillomavirus umano (HPV), responsabile di quasi il 97% di tutti i tumori della cervice uterina, nonché di una consistente fetta di tumori anali, della vagina, del pene, della vulva e del distretto testa-collo”, chiarisce Lorusso. “Grazie all’avvento dei vaccini contro questo virus il tumore della cervice uterina si può prevenire. Inoltre, è possibile fare prevenzione secondaria sottoponendosi regolarmente al PAP-test o ai test per la ricerca dell’HPV”. In Italia il vaccino contro l’HPV viene offerto gratuitamente a tutte le bambine a partire dai 12 anni - l’efficacia vaccinale è massima prima dell’inizio dell’attività sessuale e prima di esser entrati in contatto con il virus - ed è fortemente raccomandato anche ai maschi: si tratta di uno strumento di prevenzione sicuro e capace di garantire una copertura contro l’infezione per molti anni. L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha lanciato una campagna di promozione del vaccino contro l’HPV, considerato la strategia vincente per eliminare il cancro della cervice: obiettivi di tale proposta sono il raggiungimento del 90% della copertura per la vaccinazione anti-HPV, del 70% dello screening per il cancro cervicale e del 90% del corretto trattamento e follow-up delle donne con tumore invasivo.

Se diagnosticato al primo stadio, soprattutto per merito dei protocolli di screening, il tumore della cervice può essere guarito con l’intervento chirurgico”, precisa l’esperta ginecologa romana che ha partecipato al Congresso ESMO di Madrid dove, per la prima volta in 25 anni, si sono visti gli ottimi risultati di una terapia che combina radio-chemioterapia concomitante esplosiva e immunoterapia, riducendo del 30% il rischio di progressione della malattia. “Invece, per le forme recidivanti si sfrutta la combinazione di chemioterapia, farmaci immunoterapici e anti-angiogenetici, aumentando di quasi un anno la sopravvivenza globale”.

“Sono tutti risultati eccezionali se si considera che, in tempi precedenti all’avvento dei farmaci immunoterapici, la sopravvivenza nelle pazienti con tumore della cervice avanzato o metastatico era di soli 17 mesi”, conclude Lorusso. “Tuttavia, convivere a lungo con una malattia metastatica non equivale a una guarigione e questo giustifica lo spostamento degli sforzi sulla prevenzione di questo tumore grazie ai vaccini e ai protocolli di screening”. Un concetto che si sposa bene con l’investimento nelle tecniche di profilazione molecolare, per ottenere quella corretta combinazione in grado di ridurre l’impatto di tutte queste patologie sulla qualità di vita della donna.

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